di Alessandro Bocci ( Fonte – Corriere della Sera)
Era malato da tempo, ma da qualche giorno era ricoverato in ospedale a Piombino dove era nato.
Aldo Agroppi aveva il cuore Toro e non è soltanto un modo di dire. La maglia granata era una seconda pelle, un modo di affrontare il calcio e la vita. Il Torino lo aveva preso diciassettenne dal Piombino, la squadra della sua città, nella quale aveva esordito in serie D e dopo un girovagare per l’Italia perché così si faceva allora, molto più di oggi, lo ha fatto esordire in serie A il 15 ottobre del 1967, il giorno stesso in cui è morto Gigi Meroni. Una coincidenza che lo ha segnato. Eppure, da ragazzino Agroppi era tifoso della Juve e giocava con i calzettoni abbassati come il suo idolo, Omar Sivori.
Lui stesso ha raccontato, in un’intervista al Corriere fiorentino, il suo innamoramento granata. «Una volta entrato nello spogliatoio del Filadelfia e guardato con attenzione le foto del Grande Torino e la carlinga dell’aereo che si schiantò a Superga capii che dovevo comportarmi da uomo e amare il Toro». E anche diventare il più acerrimo nemico della Juve, simbolo di un potere che Agroppi ha sempre combattuto, prima da calciatore nel Torino, oltre duecento presenze e due Coppe Italia vinte, poi da tecnico. Aldo era un centrocampista difensivo, che aveva corsa e macinava chilometri. Lido Vieri era come un fratello, il capitano Giorgio Ferrini un punto di riferimento. «Quando sposi il Torino è per sempre, come Nadia», moglie e compagna per quasi 50 anni. Da allenatore la carriera è stata breve, ma intensa. Agroppi ha portato il Pisa di Romeo Anconetani in serie A e la Fiorentina sino al quarto posto. Il 2-0 ai bianconeri, firmato da Passarella e da un giovane Berti nel recupero, con Aldo che esulta girandosi verso la tribuna all’indirizzo dell’allora presidente Giampiero Boniperti, è stato il suo momento di massimo splendore. A Firenze però non sono certo state tutte rose e fiori. La squadra volava, ma Agroppi sostituiva spesso e volentieri Antognoni, reduce da un grave infortunio e tra il tecnico e la bandiera della città il rapporto era conflittuale. Agroppi per quello ha rimediato pugni e calci, un martedì prima dell’allenamento, salvato da Passarella. Aldo non si è spaventato e non ha fatto passi indietro, non ha mai tradito se stesso. Arguto, ironico, divertente, ha perso la panchina della Fiorentina alla fine di quella stagione da incorniciare, con l’avvento del presidente Pier Cesare Baretti, che gli preferì Eugenio Bersellini. Agroppi ha dovuto combattere contro molti nemici, alcuni subdoli, come la depressione.
Ha fatto anche altro nella vita, a Firenze aveva un ristorante-pizzeria proprio davanti al Bar Marisa, il ritrovo dei tifosi e ai giornalisti che lo frequentavano regalava sempre le sue massime e si infervorava nella discussione. Amava la musica e collezionava vinili. Dopo quella stagione da incorniciare, è iniziato il suo declino: un esonero al Como, la retrocessione con l’Ascoli, un’altra breve parentesi alla Fiorentina, lunga appena quattro mesi, iniziata malissimo a Udine con un 4-0 e una rete subita dai viola dopo appena nove secondi, che Agroppi commentò in maniera sarcastica: «Il primo gol non va addebitato a me, non mi ero ancora seduto sulla panchina». Da commentatore della Rai sono celebri le discussioni con Marcello Lippi che simboleggiava agli occhi di Aldo il potere della Juve. Ancora oggi, chi aveva la fortuna di parlare con lui al telefono, racconta che non aveva perso lo spiritaccio da maledetto toscano: giudizi taglienti e battute dissacranti. «I ruffiani proprio non li sopporto». E non ha mai cambiato idea. Agroppi è rimasto fedele a sé stesso, sino alla fine, dopo aver compiuto gli 80 anni nella sua Piombino «il posto più bello del mondo». Un personaggio diverso, di un calcio diverso. (Fonte Corriere dello Sport)